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La femme Natasha: la recensione di Black Widow

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Questa è una storia appassionante, contemporaneamente piena d’azione e di sfaccettato dramma umano, di momenti spettacolari e di approfondimento social-psicologico, di riflessioni sulle insondabili complessità delle nostre scelte e della nostra identità e di sequenze che ci tengono in punta di poltrona col fiato sospeso: è la storia di una finta famiglia di spie sovietiche che, sotto copertura nei tranquilli e lindi sobborghi di una middle America che più middle non si può, impila decisioni impossibili, sensi di colpa, dilemmi etici, dinamiche disfunzionali, assottigliando sempre di più la linea che separa la messa in scena dalla realtà, fino a confonderla del tutto, a credersi una famiglia vera. Sigla!

Non so se ci siete davvero cascati, ma non stavo (ancora) parlando di Black Widow, bensì di The Americans, una delle migliori serie del decennio scorso, con una Keri Russell e un Matthew Rhys immensi (per non dire delle guest star ricorrenti come l’attrice caratterista Margo Martindale, o Frank Langella), grandissima televisione come oggi non se ne vede l’ombra (non voglio fare la boomer, ma se aspettiamo che l’algoritmo di Netflix produca una cosa come The Americans stiamo freschi). Deve averlo pensato anche Kevin “Cappellino” Feige, o forse l’ha pensato lo sceneggiatore Eric Pearson (che oltre a Godzilla vs Kong ha scritto anche Thor: Ragnarok e, prima ancora, sempre nella grande famiglia Marvel, era nella writers’ room di Agent Carter, una serie con un budget tragicamente inferiore alle proprie ambizioni ma che comunque aveva un suo perché); o forse l’hanno pensato gli autori della storia Jac Schaeffer (Wandavision) e Ned Benson (La scomparsa di Eleanor RigbyLa scomparsa di Eleanor Rigby?! Ma che davero? Ma siamo sicuri?), o magari l’ha pensato la regista Cate Shortland, autrice australiana di cinema indipendente di cui non ho visto nulla prima di ora, come spesso mi capita con gli autori australiani di cinema indipendente (sono schifosamente americanocentrica, mea culpa).

Fatto sta che Black Widow inizia in The Americans: c’è una famiglia di spie russe sotto copertura negli States, padre (lo sceriffo di Stranger Things), madre (sua divinità Rachel Weisz) e due regazzine, la più grande delle quali è la futura Avenger Natasha Romanoff alias Black Widow alias Scarlett Johansson. L’idillio familiare è spezzato bruscamente e la famigliola è costretta a fuggire cantando Bye Bye American Pie e guardando il Sogno americano, rappresentato da una partita di baseball intravista a lato della superstrada, svanire davanti agli occhi offuscati dal pianto. E siccome detta così sembra una pacchianata totale, intervengo subito per sottolineare che per qualche ragione tutto il prologo mi è piaciuto molto, e sì anche questa scena: il mio cervello diceva “seh, vabbè, ma che sfacciata propaganda patriottica a stelle e strisce ci stanno propinando!”, ma il mio cuore era totally into it, forse perché la giovane attrice che hanno scelto per la parte di young Natasha – cioè Ever Anderson, ovvero la figlia di Milla Jovovic e del Migliore degli Anderson, il cui vero nome,  mi suggerisce il capo Nanni Cobretti, è dunque Best Anderson Ever – mi è parsa particolarmente azzeccata. Dopodiché la famigliola arriva rocambolescamente a Cuba, col supereroico babbo attaccato all’aereo manco fosse Tom Cruise. Dopodiché le regazzine vengono separate brutalmente dai “genitori”. Dopodiché parte una cover eterea di Smells Like Teen Spirit su drammatiche immagini di bambini rapiti, malmenati, schiavizzati e venduti che, insomma, non è esattamente il tipo di roba che ti aspetteresti di vedere su Disney+. E insomma, non sto a farvela tanto lunga né a raccontarvi tutto scena per scena, ma nel giro di una mezz’ora siamo tutti a inseguirci con le macchine e le moto e i carri armati nel traffico diurno di Budapest, si sono già visti del sangue e degli arti spezzati, e io domando al film: “Okay, chi sei tu, e cosa ne hai fatto del Marvel Cinematic Universe?”.

brum brum swiish bang bum bum bangarang!

Ovviamente non dura, o meglio: s’intitola Black Widow, è un film su Black Widow, è in continuity con il Marvel Cinematic Universe (per la precisione (?) è un “interquel”, situato post Captain America: Civil War e prima di Avengers: Infinity War), ha pure una scena post credits (una sola, però! Ci credete?), c’è poco da fare, È un film del Marvel Cinematic Universe. Però. Non so se capiti anche a voi, ma negli ultimi tempi a me succede sempre più di frequente di intravvedere le potenzialità che un film potrebbe avere se non fosse “imprigionato” nel suo franchise. Un po’ è colpa del fatto che, anche se la pratica di assoldare “autori del cinema indie”, australiani e non, per affidar loro blockbuster multimilionari è diffusa tra i grossi studios hollywoodiani, poi questi “autori del cinema indie” vengono sistematicamente e più o meno gentilmente condotti all’interno delle maglie stilistico-narrative del Grande Franchise (e in particolare l’MCU, dal punto di vista estetico, salvo eccezioni come appunto i Guardiani o Ragnarok, è sempre più, un film dopo l’altro, uguale a se stesso); e c’è anche da dire che effettivamente capita sempre più spesso che i copioni che girano tra la gente giusta di Hollywood, anche se magari inizialmente concepiti come film a se stanti, vengono re-impacchettati dentro la cornice di qualche franchise già esistente, perché oggi chi è che va più a vederlo un blockbuster originale non collegato a niente? (Riconosciamo il genio di J.J. Abrams che riesce a mettere in pratica questo processo con meno del minimo dello sbattimento).

Dunque, è vero che spesso sotto il costume del Grande Franchise ci sarebbero altri film in potenza, e che magari, in qualche scena, riescono addirittura a fare capolino e a farci capire come sarebbero potuti essere. Ora, “originale” non è proprio un aggettivo che spenderei per definire Black Widow: come da incipit, inizia in The Americans, Natasha e le sue “sorelle” sono altrettante Nikita, c’è un evidente Terminator, e il tutto è inquadrato in una cornice da spy movie tecnologico e adrenalinico alla Mission: Impossible o alla Jason Bourne. In una scena, all’inizio del film, Natasha guarda un vecchio Bond, recitandolo a memoria, e non uno a caso, bensì Moonraker, con il quale la trama di Black Widow avrà più di una similitudine che qui lascio nel vago per non fare spoiler. Ma è proprio inserendosi in questo genere ben preciso, e quindi promettendo di rispettarne (e in gran parte la promessa è mantenuta), omaggiandole, le sue regole e pure i suoi cliché, che riesce a essere almeno un po’ “un film” e non “un altro pezzetto del Marvel Cinematic Universe”. Sembra una stronzata – “quindi, Xena, ci stai dicendo che questo film è un film? Avanguardia pura!” – ma il Grande Franchise ha la tendenza facile a ripiegarsi su se stesso, ad autocitarsi e autofagocitarsi: il suo grande punto di forza – cioè la costruzione di un universo narrativo iper complesso e sempre potenzialmente ampliabile, una finestra aperta dopo l’altra, regalandoci l’eccitazione di un infinito mondo alternativo da esplorare – è sempre più frequente che si riduca a una enciclopedia nerd impegnata a spiegarti le backstory non solo dei personaggi, ma anche degli oggetti, degli animali da compagnia, dei soprannomi.

hai detto bond?

Black Widow tra l’altro non è una origin story, come spesso capita ai primi (in questo caso unici) cinecomic dedicati a un solo personaggio: come Natasha Romanoff sia diventata la Vedova nera lo intuiamo a grandi linee dalla prima volta in cui è apparsa in Iron Man 2, e i suoi inoltre non sono “superpoteri” come per la maggioranza degli altri Avengers. È una spia e un’assassina, lo è stata fin da giovanissima, a un certo punto ha disertato Madre Russia ed è diventata una collaboratrice dello S.H.I.E.L.D.; in Avengers: Age of Ultron scopriamo qualche dettaglio che potevamo però comunque facilmente immaginarci avendo visto almeno uno dei film di Luc Besson. C’era bisogno di un film sulla sua infanzia, sul suo addestramento nella Red Room, sul suo periodo oscuro da killer implacabile, sulla sua decisione di saltare la barricata e rifugiarsi tra le braccia dallo zio Sam? Boh, forse sì, come al solito dipende, se fosse stato un bel film perché no? Ma arrivati a questo punto, dopo dieci anni e nove altri titoli in cui è comparsa come personaggio secondario, forse è più “originale” (prendete sempre il termine con le pinze) andare a esplorare una di quelle finestre temporali rimaste buie nella timeline dell’MCU e raccontare qualcos’altro, visto che nel frattempo Red Sparrow l’ha già fatto qualcun altro. Intendiamoci, non mancano gli Easter Egg o similari, per esempio trovo straordinario come da una frase su Budapest buttata lì en passant in The Avengers si sia creato un sottobosco di ipotesi, teorie e fan ficition. Ma tutto sommato mi sembrano spiegazioni retroattive ben integrate nel racconto, e mi sembra un film che si possa vedere anche senza aver visto tutto il resto dell’MCU (anzi, magari ci guadagna pure, se non si sa che fine fa Natasha).

Ho letto un po’ in giro chi non ha apprezzato il film lamentarsi del terzo atto, che sarebbe confuso, assurdo e cigolante, ma a me non è dispiaciuto, narrativamente: doppi, tripli, quadrupli, ennepli giochi, tradimenti e colpi di scena stanno appunto nel DNA del genere, senza contare che Black Widow ha più di una parentela con Captain America: The Winter Soldier (inevitabilmente, visto che è pure l’unico film dell’MCU in cui Scarlett è davvero co-protagonista e non solo una guest star di lusso), condividendone sia l’anima spy sia quella cospirazionista. Se mai è tutta la parte centrale, quella in cui il film diventa per un po’ una sitcom sulla famiglia disfunzionale di spie che mi ha lasciato un po’ freddina. Sia per lo scarto di tono – voglio bene a David Harbour come tutti, ma secondo me qui stare un filo sotto l’overacting non gli avrebbe fatto male – sia per quello di ritmo: fino alla fuga in elicottero il film è tutto una corsa a perdifiato, proprio come appunto un Mission: Impossibile che se ne frega sia della plausibilità sia della comprensione della trama perché deve farti vedere una dietro l’altra delle sequenze d’azione fighe, e mi piaceva, non avevo alcuna voglia di fermarmi, e di fermarmi così tanto e così a lungo, ma okay, va bene, lo sopporto, tanto più che i quattro attori co-protagonisti sono bravi e tengono in piedi anche questi momenti.

oh, papino, sei sempre il solito incorreggibile!

A proposito di attori bravi, non che me ne stupisca, ma Florence Pugh si dimostra ancora una volta una delle migliori giovani attrici in attività, e per me è sicuramente uno degli highlight del film, riesce a infondere personalità e tridimensionalità al personaggio solo col modo di porgere le battute, e a fare scelte non scontate. Dalla prima volta in cui l’ho vista – in Lady Macbeth – in avanti, non mi è ancora capitato di non pensare “Florence Pugh è una delle cose migliori del film”, da Piccole donne a Midsommar a The Little Drummer Girl (che è una miniserie da John le Carré, diretta da Park Chan-wook, in cui lei interpreta un’attrice reclutata dal Mossad, quindi forse anche un po’ un provino per questo film), e a esser sempre bravi facendo cose così diverse ce ne vuole. Poi qui in Black Widow tutti perpetuano la gloriosa tradizione degli attori anglofoni che interpretano personaggi russi sfoggiando discutibili accenti (secondo il capo Nanni Cobretti è un messaggio ben preciso, e mi sembra plausibile), e proprio Pugh mi pare quella che cammina sulla linea più riuscita tra accettabile credibilità e vago imbarazzo.

Sto dicendo che è un film perfetto, Black Widow? No, macché, non mettetemi in bocca cose che non ho nemmeno pensato. Personalmente, proprio il fatto che mi abbia promesso un certo tipo di action più “realistica” (tra mille virgolette) mi ha fatto poi mal digerire l’ormai tassativo abuso di CGI cartoonesca – e, soprattutto, inevitabilmente un po’ generica – nelle scene che più aspiravano alla grandiosità dell’effetto speciale. Ora, io non pretendo che tutti gli attori facciano come Tom Cruise e rischino la vita lanciandosi col paracadute da altezze inenarrabili o scalando grattacieli infiniti… anzi, no, e che cazzo, lo pretendo eccome!!! Suvvia, ce la fa Tom alla soglia dei 60, che ci vorrà mai? Nel lavoro bisogna metterci un po’ di impegno, perdindirindina! È inutile che mi parlate di “grittiness” e “authenticity” se poi non siete disposti neanche ad attaccarvi a mani nude a un aereo in decollo!

fischia il vento, infuria la bufera, elicottero rotto eppur bisogna andar

E poi, paradossalmente, proprio per quello che più sopra ho detto essere una buona scelta, cioè la sua natura di “intermezzo”, di obbligatorio flashback, Black Widow non può avere l’epicità di altri titoli Marvel, e anche se la storia che racconta è fondamentale sia per la psicologia dell’eroica protagonista (ci è più chiara la sua propensione al sacrificio, e anche il suo atteggiamento “protettivo” e “responsabile” in Endgame) sia per le sorti del mondo (tutto sommato il villain, interpretato da Ray Winstone, era uno di quelli pericolosi). Ma la sensazione resta sempre quella della parentesi, dell’approfondimento parallelo e secondario, del “di più”; non può esserci la sensazione, come in altri film dell’MCU, che qui ci siano in ballo i destini dell’universo, perché i destini dell’universo li abbiamo già seguiti, e per ora pure “risolti”, nella timeline “principale”, nella storia “dei grandi”.

Ma anche, in fondo, chissenefrega? Black Widow è un bello spy action, solido e divertente, benissimo interpretato da tutti quanti, fila via che è un piacere per le sue due ore e un quarto, ha sequenze d’azione discrete, perfino qualche momento commovente, e per tutto il resto (ora su Disney+, tra l’altro, pensa un po’ il caso) c’è sempre il rewatch di The Americans.

Immagine preview di Disney+ quote: “two famiglias is megl che one”, Xena Rowlands, www.i400calci.com

Trailer | IMDb

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